Quattro chiacchiere con...

Libera discussione con Peppino Curcio scrittore, storico ed autore del libro "Ciccilla", storia della brigantessa Maria Oliverio e della sua Banda. I risvolti storico-politici illustrati dall'autore.
Intervista di Francesco Marano.


D:Come nasce Ciccilla?

R:Ciccilla nasce, come ho scritto nell’introduzione al mio libro, dalla prosecuzione del lavoro di ricerca iniziato da mio zio Pietro D’Ambrosio. Una ricerca che aveva coinvolto e appassionato anche me. Mio zio aveva ritrovato una serie di interessantissimi indizi riguardanti la banda di briganti capeggiata da Pietro Monaco e su Ciccilla.
Il lavoro di ricerca di mio zio si svolse soprattutto nell’Archivio di Stato di Cosenza (che aveva riordinato a quel tempo solo i documenti provenienti dalla Prefettura, ma non gli atti dei processi), su alcuni giornali dell’epoca e su fonti tramandate oralmente nel suo paese, Serrapedace, paese di residenza della gran parte dei componenti della comitiva di briganti.
Mio zio non aveva potuto consultare due opere di approfondimento, perché postume alla sua ricerca. Si tratta di strumenti importantissimi e indispensabili per chiunque voglia fare studi su questo argomento: i volumi sulle “Fonti per la Storia del Brigantaggio post-unitario conservate nell’Archivio Centrale dello Stato – Tribunali Militari Straordinari” a cura di Loretta De Felice (tra l’altro, l’autorevole autrice, che sfoglia migliaia di processi di briganti da lei riordinati, concentra la sua attenzione proprio su Ciccilla - si veda a tal proposito la nota a pagina 42 del mio libro e la pagina 449 dei suoi volumi) e il volume, uscito nel 2004 a cura di Flavio Carbone, sulle fonti documentarie provenienti dall’Archivio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito. Il mio lavoro di approfondimento inizia da queste due opere che individuano le fonti primarie che si trovavano a Roma e poi prosegue a Napoli presso l’Archivio di Stato in via Egiziaca a Pizzofalcone e presso la Biblioteca Nazionale nella sezione Lucchesi Palli dove ho scoperto gli articoli di Dumas riguardanti Pietro Monaco e sua moglie.
Un altro motivo di interesse verso questa Storia riguarda il paesaggio calabrese. La Storia di Pietro Monaco si conclude nel fondo di un burrone. Una fucilata del suo luogotenente più fidato lo fulmina. La storia orale ha tramandato che Ciccilla tagliò la testa al marito morto per evitare che altri facessero una tale crudeltà, e la bruciò il un castagno monumentale. Sia la casella dove fu ucciso sia il castagno sono poco distanti da una mia piccola proprietà il cui paesaggio intendo valorizzare perché è intriso di altre microstorie interessanti e belle riguardanti altri periodi storici, in particolare: è il luogo dove nel 1943, ancora sotto il regime fascista, fu nascosto da mio padre e da mio nonno, Pietro Ingrao (dirigente politico antifascista e nel 1978 futuro Presidente della Camera dei Deputati, durante il sequestro Moro); inoltre questo paesaggio è poco distante (e meglio conservato) da quello dove scelse di passare gli ultimi giorni della sua vita il più importante di tutti i calabresi, l’Abate Gioacchino da Fiore, morto a Canale di Pietrafitta nel 1203.
Il terzo motivo è la voglia di comunicare agli altri la storia di questa donna così intrigante e complessa. Una storia che è al tempo stesso feroce e delicata, una storia di violenze e di intrighi, ma anche di passioni amorose e di ricatti inconfessabili. Il bene e il male non sono mai da una parte sola. Ogni personaggio del mio libro ha aspetti positivi e aspetti negativi che mette in luce. Somiglia molto a una storia di mafia dei giorni nostri dove il potere costituito viene a patti con il potere criminale.
Ultimo, ma non per importanza è la rivelazione di quanto le mie ricerche hanno fatto venire alla luce dopo 150 anni di oblio, ovvero gli importanti personaggi coinvolti in prima persona in questa vicenda, in particolare, il più noto dei romanzieri, Alexandre Dumas e il patriota ed eroe Giuseppe Sirtori, Capo di Stato Maggiore dei “Mille” di Garibaldi e Presidente della Commissione Parlamentare contro il Brigantaggio, quella commissione che produsse la famigerata Legge Pica.


D:Nel libro si narra la storia di Maria Oliverio, ma il sottobosco di personaggi è notevole. E’ un intrecciarsi di destini che hanno come denominatore unico il solo fenomeno del brigantaggio?

R:No, non solo brigantaggio, sullo sfondo c’è anche la società calabrese (e dei casali di Cosenza in particolare) di quel tempo che fa i conti con l’estrema povertà e un’economia certamente di sussistenza, ma nello stesso tempo variegata e articolata. Nella Storia che racconto c’è una classe contadina consapevole dei propri diritti che rivendica gli usi civici delle terre silane. I briganti di Serrapedace sono tutti dei carbonari che fruiscono dell’uso civico del legname, configgono con uno dei protagonisti dell’avanzata di Garibaldi, ovvero, occupano la difesa del barone Guzzolino, vicinissimo al Governatore Morelli, ritenendola una terra usurpata agli usi civici degli abitanti dei casali. L’ispiratore (ma non attore protagonista) di questa rivolta è il prete Bartolo D’Ambrosio il quale fu arrestato e detenuto senza processo per oltre un anno, la causa in appello de parroco, dichiaratamente filo borbonico, fu la prima a essere istruita della neonata Corte d’Appello di Catanzaro. In questo unico caso ho ritrovato una relazione tra la rivolta sociale e politica e il fenomeno del brigantaggio.
Nei miei studi le altre rivolte contadine che avvengono in quel periodo nei casali nulla hanno a che fare con il brigantaggio, anzi ho trovato tra i documenti d’archivio, come accade, ad esempio a Celico e a Rogliano, che in questi luoghi i contadini chiedono alle autorità la bandiera tricolore per portarla alla testa della loro protesta. Un comportamento che sa di eroico e fortemente patriottico se pensiamo alla truffa delle terre promesse da Garibaldi e negate immediatamente dal Governatore Donato Morelli.
Per il resto il fenomeno del brigantaggio in queste contrade, più che una rivolta, appare molto simile al fenomeno mafioso. Gli intrecci con il potere ai suoi più alti livelli coinvolgono direttamente il Governatore e le persone a lui vicinissime, come il rapito Achille Mazzei (fratello del noto patriota Raffaele e figlio di Giuseppe altro martire del Risorgimento morto nei moti dell’Angitola del 1848) che parla del legame con la Banda Monaco nella sua deposizione al processo per il suo rapimento. Dopo una campagna di stampa nazionale che accusa Achille Mazzei di essere coinvolto con il tentativo di rapimento del giudice Nicola Nicoletti è lui stesso che scrive per smentire un tale coinvolgimento in un breve trafiletto apparso sul Bruzio di Vincenzo Padula.

D:Dalle risposte che mi dai e che non ritrovo nel tuo libro deduco che le tue ricerche sono continuate.

R:Sono continuate e continuano: è come un virus che mi ha colpito indelebilmente. Ho scoperto nuovi intrecci, soprattutto riguardanti il periodo che va dal passaggio di Garibaldi al maggio del 1862, quando il fenomeno del brigantaggio ha altri protagonisti e altri obiettivi.

D:Credi che Giuseppe Garibaldi nella sua avanzata nel territorio calabrese ebbe vita facile? Fu favorito da facili promesse mai mantenute? Il Brigantaggio aveva legami con i borboni?

R:Garibaldi ebbe la strada spianata da decenni di attività antiborbonica nella provincia di Cosenza. Mi riferisco soprattutto alle rivolte del 1848 scoppiate in ogni angolo della provincia o alla rivolta di Cosenza del 1844 e al successivo eccidio dei Fratelli Bandiera. O alle imprese dei singoli patrioti che immolarono le loro vite in imprese coscientemente impossibili, come Giovan Battista Falcone triunviro nella spedizione dei 300 guidata da Pisacane o Agesilao Milano che cerca di uccidere il re borbone nel bel mezzo di una parata militare.
Si deve aggiungere una intensa attività segreta della Massoneria che prepara il campo corrompendo e minando alle radici la fedeltà delle burocrazie amministrative e militari borboniche, che ha come protagonisti, a partire dal 1856, i fratelli Donato, Vincenzo e Carlo Morelli e Raffaele Mazzei.
Il frutto di questa attività fu la battaglia, mai svolta, di Agrifoglio. Mai svolta non perchè non ci furono i presupposti o la voglia di combatterla da parte dei patrioti cosentini. Nei giorni precedenti, quando la forte Armata del Generale Ghio saliva la penisola per meglio rispondere all’avanzata dei mille e per aggregare le truppe di stanza a Catanzaro e Cosenza, la mobilitazione antiborbonica fu davvero straordinaria, documentata da migliaia di adesioni spontanee da parte di ogni ceto sociale. Se si fosse davvero svolta quella battaglia probabilmente si sarebbe comunque vinta.
Ma la vera battaglia si svolse con gli intrighi, i ricatti, i sotterfugi, le prebende e le promesse. La battaglia fu vinta, per usare un eufemismo, “a tavolino”. Ma la resistenza borbonica non scomparve affatto. Anzi. Questa parte di Storia da me approfondita scopre alcune vicende relative a quel che successe negli anni successivi. Come si difese quel potere e le centinaia di personaggi influenti e potenti che erano la “classe dirigente” del sistema di potere borbonico.
Quando nel mio libro faccio un cenno al brigante Leonardo Bonaro, ucciso dai luogotenenti della banda Monaco, scopro solo la punta di un iceberg di quello che fu l’attività filo borbonica in armi che ci fu nella provincia di Cosenza. In questi mesi di ricerche e approfondimenti ho fatto nuove scoperte inerenti quel periodo. Ho già fatto riferimento, nella seconda domanda, all’arresto di Bartolo D’Ambrosio. Aggiungerei il terribile omicidio del prete Michele Leonetti, il quale segnalò a Fumel l’attività della banda brigantesca di Serrapedace e per questo fu barbaramente ucciso nel suo orto di casa con una fucilata in bocca. Interessante il collegamento di questa banda con la più vasta rivolta filo borbonica che vedeva alla testa Padre Clemente da Sersale e che ebbe il suo acme nell’assalto a Figline (piccolo paesino molto vicino a Rogliano, sede del Governatore) come meticolosamente documentato dal processo che ne seguì.
Non riesco, senza essere supportato da un approfondimento adeguato (citando fonti documentarie e fonti secondarie) a continuare a fare affermazioni che potrebbero apparire astruse se non legate al contesto. Spero che io stesso, o altri approfondiscano meglio questi anni decisivi per la formazione dell’Unità italiana. 

Quanto alle promesse non mantenute da Garibaldi o meglio alle promesse fatte ai garibaldini, sarei più cauto. Sicuramente non furono date le terre ai contadini per diritto e questo è un fatto assodato. Ma quanti dei garibaldini che seguirono Garibaldi ebbero un posto di lavoro come guardiano o come Carabiniere? Quanti ebbero favori? Quanti furono successivamente favoriti in vario modo per aver seguito Garibaldi nella sua impresa, a quanti fu data libera opportunità di saccheggio nel corso dell’avanzata verso Napoli? Domande che non troveranno mai facili risposte, ma che devono essere poste perché il tempo degli storici di parte spero sia finito e si possa guardare alla Storia per quella che è, per quanto possibile distinta da opinioni preconcette.

D:Quali sono le attuali ricerche sul fenomeno del brigantaggio che ritieni interessanti e che vuoi comunicarci, anche solo per accenni.

R:Non dico una novità nell’affermare, come ci dice Alexandre Dumas, che il fenomeno del brigantaggio nei casali intorno a Cosenza è endemico. Se questa affermazione risponde al vero la mia curiosità mi spinge a indirizzare le ricerche verso quel che successo prima del 1860 e negli anni successivi al 1864 ovvero dopo la scomparsa della banda Monaco. Infatti, il fenomeno continua, si acuisce e finisce quasi completamente solo intorno al 1873 con la fine dell’ultimo capobanda: Giovanni Sijnardi.
Infine, ho ritrovato, insieme ad altri “interessanti” banditi, come quei briganti di Casole descritti da Dumas e perseguitati fino alla fine del 1859, anche il Generale Borbonico Caracciolo che scende da Napoli preoccupato per l’ordine pubblico di queste contrade.

KKK

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